
Essere gentili coi nostri cari
proprio quando li sopportiamo meno,
ma anche con le persone peggiori
e anche con chi non se lo merita,
perché, come infiammante veleno,
l’indisponenza è noi che limita.
Sembra bene e invece è male
la giustizia invocata da molti
ed ingollata tutta d’un boccale
contro questa gente che non dà retta
nemmeno ai più sensati risvolti
perché ha sempre tanta, troppa fretta:
di diventare più di quello che è,
di prevalere sui punti di vista,
si superficiarsi ripiena di sé,
mentre tra il senso e il consenso
un benessere illusorio resta
privo di qualunque slancio intenso.
L’antidoto sarà la gentilezza
di non disfarsi di chi non serve più,
di non rimpicciolirsi in altezza,
di non presumersi sempre nel giusto
come da una torre guardando giù
ad un sottomondo comunque guasto.
Verso le persone la difficoltà
comunicativa è che bisogna
svilupparne le migliori qualità
e non ristimolarne i difetti
per cui la sensibilità traligna
in scadenti puntigli e dispetti.
Basta l’eleganza di un saluto
o la mitezza di non continuare
un discorso che non ci è piaciuto,
all’unisono con la tolleranza
di tutte quelle figure amare
che non hanno capito abbastanza.
L’educazione nei riguardi altrui
è come un pilastro d’alabastro
a sostegno d’un gran palazzo in cui
furoreggiano tronfi terremoti
spesso causati da onde d’inchiostro
per episodi e saloni vuoti.
Può apparire unilaterale,
ma dissipa dai cuori l’oscurità
creata da una vita materiale,
sensazionale e deculturata,
rigettando sempre la banalità
di risolvere tutto in sfuriata.
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