
E poi, ad un certo punto, si muore,
vanificando tutte le fatiche
che sembravano inevitabili
per farsi notare, per ottenere,
per scansare condizioni nemiche
ormai diventate trascurabili.
Ai più importa poco se svanisce
un uomo, un vicino, un passante
da cui non traggano qualche vantaggio:
dei suoi difetti, delle sue angosce
ancor meno appare rilevante
quando ne scorderanno il miraggio.
A noi, invece, risulta stonata
l’assenza persino di certi gesti,
incisi a fondo nel quotidiano
dall’abitudine che li dilata
ben oltre i persistenti contesti
rimasti a circondarci invano.
Abbattuti da questo stato… questo…
privato… di profonda prostrazione,
che ottenebra qualunque visione
incatenandovi tutto il resto,
la vita diventa una porzione,
ridotta e quasi fantasmizzata
dall’ingerenza dei troppi ricordi
che ci inducono in confusione
affiorando foschi alla giornata
come dopo stravizi e bagordi.
Chi ci parla non capisce, non sente
l’eco del Tempo che rimbomba dentro,
illacrimabile e rancoroso
per lo strappo svanito in niënte,
ma che suscita un’onda di scontro
che rende il presente fastidioso.
Chi parla è concentrato su di sé,
su beghe talmente superficiali
da tagliare la nostra profondità,
senza consapevolezza del perché
siano portatrici di tanti mali
certe parole dette senza pietà.
I vestiti a lutto servivano
proprio per queste persone “sbadate”,
anche se su quelle addolorate
con le loro memorie pesavano.
Prof. Simon Carù
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