
Si riversò la tristezza del cielo
nelle logore, trasandate strade:
fiacco, l’aureo pomello afferrai
e l’uscio diroccato fu alle spalle.
In quella baraonda cittadina
mi parve di scorger lontano un volto
a me tanto noto quanto temuto.
Inutilmente i passi si fecero
rapidamente più estesi e celeri,
ma, come inopportuno moscerino
che irrompe nella pace notturna,
ahimè, quel minuscolo atomo avanzò.
Sprezzante l’imminente pericolo,
cercai di volger l’attonito sguardo
a qualche povero viandante, ignaro
della straziante pena che abilmente
avrei dovuto presto scontare.
Con un sorriso artefatto, tipico
degli annuali incontri familiari,
risposi a fatica agli imbarazzanti
quesiti che già riecheggiarono
nell’ineffabile ponderosa aria;
e d’improvviso la foce del fiume
di parole parve inarrivabile.
Ormai stremata, sul campo di guerra
misi in atto un’ultima strategia:
provai ad atteggiarmi interessata,
ma giunsi, senza troppo discorrere,
ad esiti unicamente esiziali.
Mi arresi; ma come grazia divina
nessun altro suono venne prodotto
da quella bocca così instancabile.
Il riso che poc’anzi mi abbandonò
rinvenne sul mio volto, marcato
dalle ferite incassate finora.
Vacillando, ancora disorientata,
giunsi nella mia angusta dimora
tuttavia innocua e silenziosa;
captai nella mia mente sgombra
un pensiero vagamente ubriaco:
in questa giungla assai disordinata
è sempre più densa questa tendenza:
la mania di ardita egemonia.
D’altronde quella mattina pioveva.
La metereopatia mi avvertì
e non l’avrei dovuta ignorare.
Marta Bienati 4B
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